domenica 3 maggio 2009

Il personale senso del benessere

di Stefano Centonze

Qual è l’idea che ciascuno di noi ha del benessere? Al di là della molteplicità di fattori, sociali, culturali e geografici, che possono condizionare la risposta a questa domanda, il personale senso del benessere nasce sempre da una ricerca. Ovvero, dalla naturale inclinazione degli uomini a conseguire una dimensione “altra” che ne elevi le condizioni, sociali, economiche o di salute. Mentre, però, nella costante corsa al successo, appare improbabile che possano essere persi di vista gli obiettivi professionali, sempre più spesso accade di dimenticare ciò che sul momento non sembra immediatamente fruibile e che, come tale, può essere trascurato e lasciato al caso: noi stessi.
Gli anni che ci vedono protagonisti segnano il passaggio tra vere e proprie ere: abbiamo assistito alla nascita del telefonino, all’era dei computer portatili ultrapiatti e all’avvento di internet. Tutto in meno di un ventennio. E chissà quante sorprese ci aspettano (spesso dico a me stesso che sarei voluto nascere tra vent’anni per beneficiare al massimo di tutto ciò). Tanto progresso, però, ha mietuto e mieterà non poche vittime: i ritmi frenetici con cui viviamo, le nostre agende sempre più ricche di appuntamenti, la necessità di essere al passo con i tempi hanno generato gli automi irritabili che vediamo quotidianamente per strada, assorti nei propri pensieri, parlare al telefonino, con la testa sempre in un luogo diverso da quello in cui si trovano, chiusi nelle proprie spalle e con il fiato corto per la fretta, l’ansia e lo stress.
Non va meglio con i nostri figli. Un tempo non tanto lontano, per fare i compiti assegnati a scuola, c’era la telefonata o l’incontro con i compagni. Oggi i compiti assegnati in classe si trovano su internet e, se proprio c’è qualcosa da dire, ci sono gli sms o le e-mail. Così poi resta del tempo per i videogiochi domestici o per ascoltare in cuffia della musica assordante da un I-POD nano! Risultato: stiamo diventando isole, chiusi nelle nostre posture, con il collo che va perdendosi nelle spalle, poco inclini alle relazioni con gli altri, incapaci di manifestare emozioni, spesso anche solo di pensarle, di farci e di fare una carezza.
Estremizzati, tali comportamenti possono perfino diventare patologici. In psichiatria, ad esempio, si parla di psicosi per indicare la frammentazione del Sè e la perdita di contatto con la propria identità. Fu Freud a proporre l’idea, tutt’ora in auge nei circoli scientifici che hanno preso vita dai suoi studi, secondo la quale noi siamo fatti di una minima parte razionale, “emersa”, chiamata conscio, e da una più grande, “sommersa”, che definì inconscio e che rappresenta la vita intrapsichica. Dall’equilibrio tra queste istanze, che sottendono il dualismo corpo-mente, materia-anima, ragione-emozione, dipende l’unitarietà dell’uomo ed il suo benessere. In altre parole, ogni fattore, esterno – più controllabile - o interno – meno controllabile, come nel caso di molte patologie -, che produca un cortocircuito nell’equilibrio tra il “fuori” ed il “dentro” di sé, distoglie dal benessere e minaccia l’intrinseca peculiarità della natura umana. L’homo tecnologicus è avvisato.

Le Arti Terapie per il benessere psicofisico
Occorre, dunque, un spazio per potersi riappropriare del proprio personale senso del benessere. Principalmente, occorre uno spazio mentale per farlo. E, per favore, abbandoniamo subito l’idea che esso sia prerogativa di chi è in possesso dei giusti mezzi per poterlo conseguire! Il benessere – quello vero – appartiene a tutti gli uomini indistintamente, senza limitazioni anagrafiche, sociali, culturali o geografiche.
Perseguire il benessere vuol dire recuperare il contatto con se stessi, con il proprio corpo, con la propria sfera emotiva, con le parti nascoste di sé, con le proprie zone buie, per ricompattare la perduta originaria unitarietà tra mente e corpo, sfera emotiva e razionalità. Vuol dire dedicarsi del tempo fuori dal caos per riscoprire la creatività, il gioco ed il silenzio nell’intento di recuperare il perduto senso di unità personale, per tornare a riconoscersi, per acquisire maggiori informazioni su se stessi, per rivisitare e migliorare il sistema delle relazioni con gli altri.
Non esistono diversità in grado di limitare questa ricerca. Si potrà, poi, discutere su quanto relativo sia tale concetto. In tal caso, rimando alle trattazioni previste nell’ambito del IV Convegno Annuale di Lecce (“Le Arti Terapie tra Arte e Neuroscienze” – Auditorium del Conservatorio di Musica T. Schipa di Lecce – 1 e 2 Dicembre 2006 – www.artiterapielecce.it).
Da alcuni anni, in equipe con la psicologa del nostro Istituto, conduco laboratori di Arti Terapie finalizzati alla scoperta della comunicazione non verbale quale espressione immediata e diretta delle emozioni. Ovviamente, non è solo questo lo scopo dei percorsi progettati, dal momento che ciascuno di essi prevede finalità e obiettivi sempre diversi. Ma tanto che ciò avvenga in ambiente scolastico, con insegnanti o allievi, in comunità, con pazienti psichiatrici o con demenza, in ospedale, con degenti o gestanti, o in contesti formativi, con gli allievi del corso di Musicoterapia, l’incontro con il benessere è una tappa fondamentale.
Esso, però, è una conquista ed un punto di partenza al tempo stesso. Imprescindibile in tutte le azioni volte alla prevenzione ed alla riabilitazione: un traguardo nel senso più ampio ma anche complementare rispetto ad altri obiettivi degli interventi programmati. Tuttavia impossibile da raggiungere senza la massima disponibilità ad accorciare le distanze con la propria vita affettiva.

Perché le Arti Terapie?
Con il termine di A.T., nella moderna accezione, si intende l’uso dell’ Arte come canale suppletivo o alternativo al canale verbale in un contesto di relazione, generalmente ma non necessariamente orientato alla cura. Tra di esse, la Musicoterapia, l’Arteterapia Plastico-Pittorica e la Danzamovimentoterapia, a vario titolo supportate da studi scientifici che ne dimostrano l’efficacia applicativa sia nei contesti cosiddetti sani che patologici, rappresentano la migliore espressione della comunicazione che oggi gli esperti definiscono di senso (per distinguerla da quella di significato, centrata sull’uso della parola). L’arte in genere, in tutte le sue manifestazioni, si rivolge, infatti, alla complessità della dimensione umana (corpo, affettività, mente) e consente, con maggior forza ed immediatezza, l’espressione di sentimenti, emozioni e vissuti, favorendo autentiche forme di contatto e relazione con se stessi e con gli altri.
La musica, la danza e l’arte si offrono, in particolare, come spazio per poter esprimere tale dimensione emozionale, come contenitori in grado di accogliere e dare senso alle emozioni, di dare spazio al processo creativo, inteso come area di pensabilità, dove possono prendere forma, in quanto note, in quanto gesti, in quanto colore, aspetti che hanno a che fare con il non detto, con il non ancora pensato.
L’atto creativo, reso possibile da un simile processo, produce distanza tra il sé e l’oggetto interno che solo ora è fuori di sé, in altra forma. Accade così che si impara ad acquisire consapevolezza dei propri vissuti, dei propri confini, non solo corporei ma anche emotivi, a far diventare storia il passato, a riconoscere il proprio vertice d’osservazione come punto di partenza per star bene con se stessi e con gli altri. Perché sperimentare in libertà un’emozione consente di darle il giusto nome, di riconoscerla e di accettarla come parte di sé, prima che la zona buia si organizzi per reprimerla. Così come rivivere un momento della nostra storia alla luce di questo nuovo apprendimento impedirà che essa riemerga e ci colga impreparati.
Soprattutto, ci fa avere meno paura della nostra “ombra” che è, poi, l’ostacolo più grande tra noi ed il nostro benessere.
Prendo in prestito una frase da Osho per concludere: “se stai cantando, se stai danzando, se stai celebrando non hai bisogno d’altro: la tua vita è già un paradiso”.

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